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Io sono Erica Cariello e sono una creative strategist freelance. Collaboro con agenzie e brand alla creazione di progetti di comunicazione integrati e campagne pubblicitarie.
Due sabati fa ho scritto di cosa succede quando la creatività evapora, oggi ti propongo un’interessante teoria sulla produttività.
Il metodo del 3/3/3
Conosciamo tutti la sensazione di avere una lista infinita di cose da fare. In effetti, la maggior parte di noi inizia la giornata con una lista. Un enorme muro di attività che devono essere spuntate: attività lavorative, attività personali, promemoria generali, attività assegnateci da altri, cose che vorremmo fare, cose che non abbiamo assolutamente tempo da fare ma che non vogliamo dimenticare, e cose che probabilmente non abbiamo bisogno di fare. Prima ancora che la giornata sia iniziata, ci sembra di essere rimasti indietro.
Il metodo del 3/3/3 è dedicato a chi spende le sue giornate lavorative al computer, tra idee e parole, e che si scontra con l’onnipresente sfida di organizzarle. L’idea è di Oliver Burkeman, giornalista del Guardian e autore della rubrica This Column Will Change Your Life. Nella sua newsletter, The Imperfectionist, scrive di produttività e di potere dei limiti.
Questo sistema prevede di strutturare la giornata lavorativa con l’intento di:
• dedicare tre ore al progetto attuale più importante, dopo aver definito una sorta di obiettivo specifico per i progressi che si intendono fare quel giorno;
• completare tre compiti più brevi, di solito cose da fare urgenti o compiti "appiccicosi" che si stanno evitando, di solito di pochi minuti ciascuno (rientrano in questo conteggio le chiamate e le riunioni);
• dedicare del tempo a tre 'attività di manutenzione', cose che richiedono attenzione quotidiana per mantenere la vita senza intoppi. Questa è la sezione più vaga e lo è deliberatamente, a detta di Burkeman: qui rientrano anche le attività di journaling mattutino e le passeggiate — un mix tra abitudini sane e amministrazione quotidiana.
L’approccio
I principi che guidano l’approccio di questa regola sono paradossalmente molto semplici. Ci guida a a fare uno sforzo per scegliere le cose che contano. È destinato a richiedere meno del tempo disponibile e a non sovrastrutturare la giornata, sentendo il bisogno che tutto vada esattamente per il verso giusto per riuscire a portare a termine il piano. Burkerman sottolinea anche che non è un metodo infallibile per aggirare la Legge di Hofstadter — "un compito richiederà sempre più tempo del previsto, anche quando si tiene conto della legge di Hofstadter" — che sottolinea la difficoltà nel prevedere con precisione il tempo che si impiegherà per eseguire una determinata operazione. La cosa più rivelatrice del metodo, secondo l’autore, è il modo in cui funziona come una forma di "pazienza attiva", che lo addestra ad essere soddisfatto di ottenere di meno in ogni singolo giorno, come un modo per ottenere di più a lungo termine.
Fare di meno è un modo per essere più gentili con se stessi e per essere più presenti nel mondo che ci circonda, ma paradossalmente è anche un ottimo modo per fare di più.
Perché solo tre ore?
Secondo Burkerman, non ci sono molte regole rigide di gestione del tempo che valgono per tutti, sempre, indipendentemente dalla situazione o dalla personalità. Ma pensa che potrebbe essercene uno: quasi certamente non si può svolgere costantemente il tipo di lavoro che richiede una seria concentrazione mentale per più di tre o quattro ore al giorno.
Come ha scritto in questo articolo del Guardian di qualche anno fa, la regola delle tre ore è una della più famose abitudini creative. Charles Darwin, al lavoro sulla teoria dell'evoluzione nel suo studio a Down House, ha lavorato duramente per due periodi di 90 minuti e un periodo di un'ora al giorno; il genio della matematica Henri Poincaré lavorò due ore al mattino e due al pomeriggio. Thomas Jefferson, Charles Dickens, Virginia Woolf, Ingmar Bergman e molti altri hanno sostanzialmente seguito l'esempio.
L'altra lezione, probabilmente più importante, non è tanto una tattica di gestione del tempo quanto una mossa psicologica interna: rinunciare a pretendere da se stessi più di tre o quattro ore di lavoro mentale quotidiano di alta qualità. Questa è un'enfasi che sfugge, credo, nell'attuale conversazione sul superlavoro e sul burnout. Sì, è vero che viviamo in un sistema che esige troppo da noi, non lascia tempo per riposarsi e fa sentire a molti come se la loro sopravvivenza dipendesse da ore di lavoro impossibili. Ma è anche vero che siamo sempre più il tipo di persone che non vogliono riposare, che diventano ansiose se non sentono di essere produttive. Il risultato abituale è che ci spingiamo oltre i sani limiti dell'attività quotidiana, quando fare di meno sarebbe stato a lungo termine più produttivo.
Link a tema:
Dipendenza dalla produttività: la logica “lavoro, dunque sono” si basa sugli stessi sistemi di ricompensa delle altre dipendenze.
E se la smettessimo di essere così raggiungibili? All'inizio, essere sempre raggiungibile era una bella sensazione ma le norme odierne di reattività sono ridicole. Non dovremmo scusarci di non riuscire a rispettarle.
L’era dell’anti-ambizione: quando 25 milioni di persone lasciano il lavoro, non si tratta solo di esaurimento.
Dall’archivio di chissenefrega:
#27 Ripartire dalla productivity dysmorphia: l’incapacità di riconoscere il nostro successo perché ci sembra di non fare mai abbastanza.
#16 L’architettura delle abitudini: se vogliamo cambiare noi stessi la cosa più ragionevole da fare è cambiare le impostazioni del nostro pilota automatico.
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