È arrivato quel momento dell’anno in cui il mio cervello inizia a surriscaldarsi, mi faccio vedere poco in città (a parte per qualche concerto) e passo le mie pause pranzo in spiaggia, rigorosamente all’ombra.
Mi ha fatto pensare che nello stesso periodo di qualche anno fa, quando la mia base era solo Milano, passavo gran parte del mio tempo ricercando la natura in qualsiasi forma: che fosse un albero del parco, una gita al fiume, al lago o in montagna. Era una ricerca che andava oltre la necessaria fuga dalla calura estiva (per quello c’era l’aria condizionata): era una specie di infatuazione.
Che gli umani abbiano l’innata tendenza ad essere attratti dalla natura lo ha spiegato il biologo Edward Osborne Wilson all’inizio degli anni ottanta con l'ipotesi scientifica sulla biofilia: la natura è per le persone un bisogno primario, strumentale alla salute fisica, mentale e al benessere. Questo perché la storia evolutiva dell'essere umano, spiega Wilson, è stata una risposta adattativa al mondo naturale. L'uomo ha bisogno della natura per stare bene
Un’altra idea che prova a spiegare l’ancestrale amore per la natura è nota come teoria del ripristino dell’attenzione (Kaplan, 1995).
Spoiler: la nostra capacità di concentrazione viene ripristinata dal tempo trascorso in mezzo alla natura. Quindi no, non hai l’adhd, devi solo farti una passeggiata nel verde.
Ci sono due tipi di attenzione: quella volontaria, in cui ci si concentra attivamente su qualcosa (studiare un libro, ad esempio) attività complesse e prolungate che richiedono uno sforzo cognitivo. E poi c’è l’attenzione involontaria in cui la nostra attenzione è catturata da stimoli intriganti o importanti (come origliare una conversazione al tavolo dietro di noi al bar, senza riuscire a leggere il libro di cui prima).
Il cervello umano si affatica rapidamente nell’utilizzo di attenzione diretta, portando a un calo delle performance cognitive. Gli ambienti naturali offrono una soluzione a questo problema, permettendo al sistema di attenzione diretto di riposare mentre viene attivata l’attenzione involontaria, che non richiede sforzo consapevole.
Il benessere mentale derivante dal contatto con la natura va ben oltre questo.
Come spiega il neuroscienziato Andrea Bariselli nel suo libro A Wild Mind, il nostro corpo ha un’eta anagrafica e un’età biologica. Se la prima è la somma matematica del tempo trascorso a partire dalla nascita, la seconda è la risultante combinata del nostro stile di vita e delle nostre abitudini, compresa l’esposizione a lungo termine al verde. Una ricerca del 2023, ha trovato una relazione tra l’esposizione al verde e un invecchiamento epigenetico più lento, nonché diverse associazioni in base ai determinanti sociali della salute, quali razza e status socioeconomico del quartiere.
I partecipanti circondati da un 30% di vegetazione entro un raggio di tre miglia erano in media biologicamente più giovani di 2,5 anni rispetto a quelli che hanno vicino 20% o meno di verde. Sono quasi mille giorni in più.
Tutto questo avrebbe un senso perfetto se non fosse che in molti, per scelta o per vincolo, abbiano come base fissa la città (spesso con sogni immobiliari da 7000€ al mq, ma quella è un’altra storia). Perché è facile capire e percepire che in natura si sta meglio e ci si ricarica, ma come si fa ad integrare la stessa esperienza quando vivere fuori dalla città non è un’opzione alla portata di tutti?
La regola del 3-30-300 del ricercatore Cecil Konijnendijk del Nature Based Research Institute stabilisce gli obiettivi ambientali specifici delle aree urbane.
Questa regola si concentra sul contributo cruciale degli alberi urbani alla nostra salute e benessere, nonché all'adattamento ai cambiamenti climatici.
In sostanza, per vivere bene bisognerebbe:
(3)
vedere almeno 3 alberi dalla propria finestra
La presenza di vegetazione a brevissima distanza ha un impatto diretto sul benessere psicologico degli individui.
(30)
vivere in un quartiere con il 30% di superficie verde
La tree canopy*- traducibile in italiano con canopia arborea - è un indicatore che aiuta gli addetti ai lavori a stimare il numero degli alberi in una città e a valutare i benefici portati dalle loro chiome (mitiga gli effetti dell’isola di calore urbana, riduce l’inquinamento atmosferico e migliora la gestione delle acque meteoriche).
(300)
vivere a 300 metri di distanza dallo spazio verde più vicino
Ovvero entro 5 minuti a piedi, soglia raccomandata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità.
*Nel 2020, Google ha lanciato il Tree Canopy Lab (inserito nella piattaforma di Environmental Insights Explorer), un programma che, combinando IA e immagini, aeree è in grado di mappare le zone delle città in base alla concentrazione di alberi.
Lo scopo del progetto è quello di determinare le aree sulle quali intervenire per ridurre le emissioni di CO2 e migliorare la qualità dell’aria e della vita.
Partendo dalla città pilota di Los Angeles, Google ha avviato il progetto di mappatura delle zone delle città in relazione alla copertura data dalla chioma degli alberi (tree canopy, appunto) utilizzando, esattamente come per Google Maps e Google Earth, immagini aeree.
Prima di cambiare casa o scappare dalla città, fammi sapere cosa ne pensi di questo argomento, o anche solo per dire ciao. È sempre bello vedere che dall’altra parte della casella di posta c’è qualcuno.
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Avere degli alberi, la natura vicino, specie quando si vive in grandi città, aiuta pure a mantenere una connessione più forte con le stagioni.
Foglie, germogli, cortecce e pollini stanno li a testimoniare non solo il tempo che passa, ma anche i cicli, la circolarità della vita.
Della natura e quindi a che di noi stessi.
Grazie Segrate. Grazie Peschiera Borromeo.