Io sono erica e questa è chissenefrega, la newsletter di spunti settimanali di cui potrebbe potenzialmente non fregarti niente.
artwork di @silviabairo_
Potrei ma non voglio
«Appena finisce tutto voglio fare un after di una settimana senza mai tornare a casa». Last famous words. Adesso mi sento come quando posticipo la sveglia almeno sette volte pensando “solo altri cinque minuti” e poi diventa un’ora.
Parlare di vulnerabilità è sempre qualcosa di complesso, anche se ora siamo tutti membri onorari del club del disagio, e questo è l’unico modo in cui riesco a definire la nuova situazione in cui stiamo galleggiando. Dopo una prima fase di pigiama, carboidrati e una buona dose di ansia, c’è stato un naturale passaggio ad un limbo dove in fine dei conti sto bene (cit. Gazelle). Anche se poi non è proprio così: poca voglia di uscire, se non addirittura paura, apatia, disturbi del sonno. Ecco la sindrome della capanna, nessun luogo è protetto come casa. Perché uscire?
L’angoscia deriva da due motivi: il virus c'è ancora e il mondo fuori è diverso da come l'abbiamo lasciato. Tutte queste precauzioni — il prendere le distanze, le mascherine, la nuova socialità — provocano inevitabilmente delle sensazioni di disagio che si traducono in fatica e allerta psicologica sempre costante. «La mente non lavora gratis, ma usando le energie che abbiamo» mi spiega la psicologa clinica Chiara Maiuri.
Siamo in modalità risparmio energetico relazionale e non solo per pigrizia. «Avere delle relazioni, di qualsiasi tipo, comporta un uso di energie psichiche molto alto. Adesso che ci siamo abituati a stare da soli per un lungo periodo e a non fare questo sforzo, le relazioni sociali sembrano qualcosa di molto più faticoso. Il vis à vis richiede uno sforzo diverso e il linguaggio non verbale adesso non si riesce nemmeno a riconoscere. Pensa alla fatica di uscire e non poter sorridere, allo sforzo di comunicare a parole quello che prima esprimevamo con un sorriso.»
Tutto questo va ben oltre il concetto di vita liquida e la fragilità delle relazioni, è un nuovo prendere le distanze mentali e fisiche con l’esterno e gli alti. E’ un problema di prossimità in un ambiente a cui non si è abituati e ad una realtà che non era come la conoscevamo: nuova e che richiede un constante impegno nel decifrarne gli stimoli.
E con l'acutizzazione delle sensazioni può esserci il risvolto negativo dell'aumentare dell'ansia: non è altro che un alert che serve a proteggerci e la vive soprattutto chi ha una certa sensibilità a livello emotivo e psicologico. «La vera chiave per chi soffre di questo problema è la gradualità. La nostra testa ha già fatto una gran fatica a stare a casa per tutto questo periodo; ora gli stiamo chiedendo di riabituarsi ad uscire e con delle circostanza che non sono ancora chiare e che non ci mettono particolarmente a nostro agio.» Tutto normale — è una cosa che va accettata e rispettata ma che va affrontata passo dopo passo per non restare intrappolati in una fase di auto quarantena. «La testa per funzionare bene ha bisogno di una breve routine — mi spiega la psicologa Chiara Maiuri — costruirne una in cui inserire in un momento in cui si esce, magari collegandolo a qualcosa di piacevole». Come un tramonto, aggiungerei io.
Alla fine mi sembra di parlare sempre degli stessi argomenti, quindi se ti stai annoiando, fammelo sapere. Se invece ti è venuta in mente qualche riflessione sentiti libero di scrivermi una mail con qualche delirio mentale: sarà apprezzata.
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Focus on Comfort Zone
con Silvia Bairo
Tra le definizioni di comfort zone di Urban Dictionary la mia preferita è "A comfortable spot. Preferably in front of the TV so you can bingewatch Netflix with good food, tea and blankets" ma la verità è che per ogni abitudine, qualunque essa sia, esiste una zona comoda da cui non si vorrebbe uscire. Ne ho voluto parlare con Silvia Bairo, illustratrice e graphic designer nata a Rapallo ma naturalizzata a Milano. Al telefono Silvia mi racconta di essere anche una viaggiatrice provetta e di essere tornata in Italia per il lockdown dopo alcuni mesi passati in Centro America, subito dopo aver partecipato ad una illustration residency alla SVA di New York. E in quell'occasione ha creato Comfort Zone, un progetto tutto realizzato in vettoriale su Illustrator (anche se di solito dipinge su carta o crea le sue illustrazioni con l'Ipad) e che è diventato un una fanzine ed è stato esposto alla SVA Flat Iron Gallery di Manhattan. Comfort Zone è un racconto illustrato che mi è piaciuto subito perché fa emergere alcune emozioni che ho vissuto anche io tutte le volte che ho deciso di cambiare qualcosa nella mia vita — che fosse un viaggio o un nuovo importante step — e mi ha fatto pensare che anche questa grande e traumatica fase della nostra vita è una zone (anche se non propriamente di comfort) da cui uscire con un po’ di coraggio.
Qual è stata l'ispirazione base del progetto?
“Comfort Zone nasce da una storia personale che ho vissuto lo scorso anno. Sono partita per partecipare ad una residenza artistica a New York: prendono solo dieci persone ogni anno, quasi non ci speravo, e invece. Ho addirittura preso un volo di sola andata perché non sapevo cosa sarebbe davvero successo. Nel progetto ho cercato di raccontare la mia visione della storia e ci sono tanti riferimenti alla realtà, come il tappeto dell'immagine di copertina, su cui mi sdraiavo dal mio terrazzo a Williamsburg, o il "Respira e auto accarezzati la testa" — è una cosa molto personale che io faccio per calmarmi in momenti di agitazione.”
Qual è l'aneddoto che ti è piaciuto di più raccontare?
“La narrazione è divisa in due parti: la prima è un disastro ma poi c'è una pagina centrale dove in realtà la protagonista si rende conto di essere felice [and I am so, so happy] nonostante il fatto di essere lontana da casa. L'immagine per me più forte è il personaggio che salta fuori dalla comfort zone. Mi sembra molto semplice ma molto esplicativo: anche perché lei salta con un salto un po’ incerto ma intanto, sta saltando. O ancora, quella della scatola, quando la protagonista si rende conto che "tutto quello che possiedi può essere chiuso dentro una scatola e che tutto quello che ti serve può stare in uno zaino".”
Qual è secondo te un buon atteggiamento mentale per uscire dalla comfort zone?
“Se non rischi mai e se non ti butti in alcune cose, la tua vita non può cambiare. Va avanti così, quasi per inerzia. Un atteggiamento giusto per uscirne secondo me è fare delle cose di cui si ha paura. Fare una lista di buoni propositi, anche delle piccole cose, e provare a farle, senza pensarci troppo. Una citazione che mi piace tanto è «all limits are self imposed» di Icarus. Io quest'anno ho messo in lista il prendere il brevetto per le immersioni, che è una cosa che un po' mi spaventa ma non voglio che mi privi di un’esperienza che mi potrebbe piacere tanto, come vedere i fondali. ”
Come hai vissuto la quarantena e come stai vivendo il ritorno?
“Pensavo che sarebbe stata dura passare in modo improvviso dalla libertà più selvaggia alla reclusione tra le mura di un appartamento. Invece mi ha dato modo di ripensare a tutto quello che avevo vissuto nei dieci mesi precedenti e a come possiamo fare dei programmi ma che ci sono cose più grandi di noi a cui ci dobbiamo adattare. Ecco, mi sono resa conto di avere un grande spirito di adattamento. Tornare non mi spaventa: bisogna ricominciare e ogni nuovo inizio è un’opportunità per mettersi in gioco.”
il progetto completo è visibile sul sito di Silvia Bairo
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